Morte per amianto ed Eternit - I parenti hanno diritto al risarcimento del danno

Pubblicato: Martedì, 19 Giugno 2018 23:14
Scritto da Avv. Gabriele De Paola
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Eternit e amianto - Risarcimento alle vittime e ai parenti delle vittime di amianto

 

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è esperto in materia di risarcimento del danno derivante da malattie professionali.

Nell'articolo che segue, lo Studio riassume per punti le tutele che spettano ai parenti di un soggetto affetto da malattia professionale.

Nello specifico, lo Studio è esperto in materia di mesotelioma pleurico cagionato da respirazione di sostanze quali amianto ed eternit.

Vediamo dunque nel merito, le pronunce più rilevanti in materia e la disciplina della materia.

Si avverte il lettore che gli argomenti che seguono sono molto tecnici e rivolti principalmente agli operatori del settore.

Al fine di non tediare troppo il lettore con l'oggetto del presente articolo, lo stesso è stato suddiviso in parti, onde renderne maggiormente facile la lettura anche in momenti diversi.

Ad ogni modo, laddove il lettore necessiti di assistenza legale stragiudiziale o giudiziale, lo Studio è pronto ad accoglierlo previa fissazione di apposito appuntamento compilando il form di contatto o semplicemente telefonando al numero 011.3173816.

Anche solo per consentire al lettore di comprendere l'importanza degli importi di cui ai risarcimenti oggetto della presente trattazione viene fornita al seguente link la Tabella aggiornata 2018 inerente alla quantificazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali spettanti alle vittime e ai parenti di tale patologia, comprensive di:

1) CRITERI ORIENTATIVI PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO NON PATRIMONIALE DERIVANTE DALLA LESIONE DEL BENE SALUTE DEFINITO DA PREMORIENZA;

2) CRITERI ORIENTATIVI PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO C.D. TERMINALE.

CONSULTA QUI LE TABELLE DEL TRIBUNALE DI MILANO AGGIORNATE ALL'ANNO 2018 - OSSERVATORIO SULLA GIUSTIZIA CIVILE DI MILANO

N.B. : LE TABELLE ANDREBBERO SEMPRE LETTE CON L'AIUTO DI UN PROFESSIONISTA ONDE NON CREARE FALSE ASPETTATIVE. SE AVETE DUBBI, CONTATTATECI AL N. 011.3173816. 

 


- Tipologie di danni risarcibili -

Anzitutto, con riferimento alla determinazione del danno dovrà tenersi presente che i danni da liquidare sono di due tipologie in quanto molteplici sono i sono i soggetti danneggiati: da un lato la vittima primaria, dall’altro i suoi congiunti.

La prima patisce infatti un danno non patrimoniale consistente nella lesione della salute e nelle sofferenze ad essa connesse;

invero, la vittima primaria patisce un danno non patrimoniale, consistitente sia nelle sofferenze provocate dalla malattia, sia dalla consapevolezza di stare per morire, nonché il danno biologico che l’ha condotta all’exitus. Il danno dovrà quindi essere attentamente personalizzato in ragione delle sofferenze patite dalla vittima e dalla consapevolezza che la stessa abbia avuto dell'avvicinarsi della morte e delle modalità con le quali la stessa si sarebbe manifestata.

Il predetto relativo credito risarcitorio, morendo la vittima, viene trasmesso agli eredi (che possono anche non coincidere con i congiunti prossimi).

Quindi agli eredi spetta a titolo ereditario il credito, acquisito dalla vittima, al risarcimento sia del danno biologico permanente, sia del danno morale, sia del danno c.d. “tanatologico”, consistente nella lucida attesa della propria morte.

Di conseguenza, il danno proveniente iure successionis ricomprende il risarcimento sia del danno biologico permanente, sia del danno morale, sia del danno c.d. “tanatologico”, mentre il danno proveniente iure proprio ricomprende il danno determinato dal dolore subito dalla perdita del parente.

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è disponibile a fornire consulenza e assistenza stragiudiziale e giudiziale in materia.

Per contattarci, al cliente sarà possibile compilare il form di contatto o semplicemente prendere appuntamento telefonando al numero 011.3173816.


- Nesso eziologico o di causalità -

Per provare i danni di cui sopra ci si dovrà innanzitutto preoccupare di provare il nesso eziologico o di causalità, ossia la relazione diretta tra causa ed effetto che ha originato la malattia professionale.

Accertato in fatto che il soggetto deceduto è stato esposto alle sostanze presenti sul luogo di lavoro, nonché acquisita tutta la documentazione clinica e eventualmente dell'Inail attestante le cause della morte per mesotelioma pleurico (ma vale tale ragionamento per qualsiasi malattia professionale), ci si dovrà dunque concentrare sulla ricorrenza del nesso di causalità.

Si dovrà ricordare che la Giurisprudenza si è sovente espressa in materia di risarcimento del danno, sostenendo che la prova dell’esposizione di un lavoratore alle fibre di amianto fosse di per sé sufficiente a ritenere sussistente un nesso di causalità tra l’esposizione e la malattia.

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- Il Mesotelioma Pleurico e la Giurisprudenza-

Facciamo pertanto un breve excursus in materia:

“Amianto” (dal greco ἀμίαντος, «incorruttibile») è il lemma col quale si indicano due gruppi di minerali: gli inosilicati ed i filosilicati. 

Essi sono accomunati dalla caratteristica composizione fibrosa.

Una fibra di amianto è 1300 volte più sottile di un capello umano. 

Le fibre di amianto, se inalate od ingerite, sono dannose per la salute umana. 

Le fibre di amianto inalate possono provocare principalmente l'asbestosi (una fibrosi estensiva non tumorale del polmone), il carcinoma (tumore del polmone), e per l’appunto il mesotelioma (tumore del mesotelio).

Il mesotelioma è una neoplasia del mesotelio, che è la membrana che riveste alcuni organi, ed a seconda dell’organo rivestito prende il nome di pericardio pleura o peritoneo.

Il mesotelioma pleurico, ovvero il tumore della pleura (membrana che avvolge ciascun polmone) è uno dei tumori più frequentemente causati dall’inalazione di fibre di amianto. Studi condotti dall’istituto superiore di Sanità rivelano che nel 69% dei casi il mesotelioma pleurico è causato dallo svolgimento di particolari attività lavorative. E’ significativo che il maggior numero di casi di morte per mesotelioma pleurico sia stato registrato nei comuni italiani in cui è sviluppata l’industria cantieristica (Monfalcone, Genova, La Spezia, Taranto: cfr. Iavarone, Mortalità precoce per tumore maligno della pleura come indicatore di esposizione ambientale ad amianto nell’infanzia, in Atti del Convegno “Primi risultati Progetti Nazionali sull’Amianto”, svoltosi presso l’Istituto Superiore di Sanità il 12 novembre 2015, in http://www.iss.itamianto). 

Come noto, il mesotelioma pleurico può avere un periodo di incubazione lunghissimo: da 10 fino a 40 anni.

Si dovrà pertanto escludere che il lavoratore abbia inalato le fibre nocive presso datori diversi o che abbia contratto la patologia aliunde, ossia altrove.

L’insorgenza del mesotelioma si divide infatti in due fasi: quella della iniziazione, in cui il DNA si trasforma; e quella della promozione, in cui le cellule trasformate iniziano a proliferare in modo patologico. 

E’ certo che l’amianto sia responsabile della iniziazione alla patologia.

Secondo un primo orientamento, il mesotelioma pleurico è “dose-dipendente” (ovvero “dose-risposta” o “dose-correlato”). Ciò vuol dire che più si resta esposti all’amianto, più aumenta il rischio di ammalarsi, e più si riduce il periodo di latenza. 

Secondo un diverso orientamento, invece, il mesotelioma pleurico è un tumore “dose-indipendente”: ciò vuol dire che una volta inalate per la prima volta fibre di amianto (anche per poco tempo), ed innescato il meccanismo eziopatogenetico, tutte le esposizioni successive sono eziologicamente irrilevanti.

Dovrà qui ricordarsi Cass. civ., sez. lav., 30 luglio 2013 n. 18267, ove si afferma recisamente (§ 2.4 dei “Motivi della decisione”) che il mesotelioma pleurico può essere causato da una sola esposizione, ed anche molto bassa, alle fibre di amianto.

A maggior ragione si potrà dare maggiore evidenza al caso trattato laddove il lavoratore sia stato esposto in maniera continuativa per molti anni alle fibre di amianto presenti in azienda, come sarà possibile accertare dall’esame dei campioni prelevati presso lo stabilimento di riferimento.

In particolare, andrà ricordato che il Giudice è chiamato qui a compiere un itinerario razionale, così riassunto dalla Corte di Cassazione: il nesso tra esposizioni successive e mesotelioma può affermarsi o negarsi solo sulla base di teorie scientifiche che soddisfino i seguenti cinque requisiti: siano fondate su solidi dati fattuali; siano fondate su ricerche ampie, rigorose ed oggettive; dimostrino alta coerenza tra i dati raccolti e le tesi che su essi si fondano;  abbiano ricevuto un apprezzabile consenso nella comunità scientifica; provengano da soggetti indipendenti e di autorità indiscussa.

Si tratta proprio del caso che ricorre in materia di mesotelioma pleurico, ove concordemente la scienza medica riconosce il nesso causale ed eziologico, tanto da tabellare la malattia quale professionale.

Quanto al comportamento datoriale, dovrà inoltre ricordarsi la presunzione di cui all’art. 2087 c.c. che solleva il lavoratore infortunato dall’onere di provare la colpa del datore, (principio pacifico: ex multis, Cass. civ., sez. lav., 3 agosto 2012 n. 13956).

Spetterà quindi al datore di lavoro dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, e quindi:avere rispettato le misure di sicurezza prescritte dalla legge e dalla comune prudenza; avere fornito al lavoratore gli strumenti idonei di protezione; avere impartito al lavoratore la necessaria formazione sull’uso degli strumenti di sicurezza personale; avere vigilato sull’adozione di quei mezzi di sicurezza da parte del datore del lavoratore. 

Per quanto attiene, in particolare, la colpa specifica per violazione di leggi e regolamenti concernenti la sicurezza sul lavoro, va ricordato che l’amianto è stato completamente bandito dall’art. 1, comma 2, L. 27 marzo 1992, n. 257, il quale vieta l'estrazione, l'importazione, l'esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto, di prodotti di amianto o di prodotti contenenti amianto.

La legge, inoltre, stabilisce i limiti massimi di esposizione all’amianto, nelle operazioni di smaltimento o per qualsivoglia ragione esposte a fibre di amianto (ad esempio, trivellazioni o scavi in terreni contenenti amianto). Tali limiti sono stati stabiliti dapprima dall’art. 31 D.Lgs. 15 agosto 1991, n. 277, in misura di 0,6 fibre per centimetro cubo per l’amianto crisotilo, e di 0,2 fibre per centimetro cubo per tutte le altre varietà di amianto. 

In seguito l’art. 2, D.Lgs. 25 luglio 2006, n. 257 ha aggiunto l’art. 59 decies al D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, abbassando il valore limite a 0,1 fibre per centimetro cubo di aria, misurato come media ponderata nel tempo di riferimento di otto ore; e tale valore fu in seguito ribadito dall’art. 254, D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, attualmente vigente. 

Per i fatti anteriori al 1992, tuttavia, la colpa del datore di lavoro che non abbia provveduto ad adottare misure idonee all’abbattimento delle polveri di amianto, ovvero alla protezione individuale dei lavoratori, viene ugualmente affermata dalla Giurisprudenza, spesso in base alla colpa generica (ex art. 1176, comma 2, c.c.), anche sulla scorta del rilievo che la pericolosità dell’esposizione all’amianto è nota da tempo: come dimostrato dal fatto che l’esposizione all’amianto per le donne ed i fanciulli venne vietata già dall’Annesso A, art. 29, Tabella B, punto 12, del R.D. 14 giugno 1909, n. 442, sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli (e ribadita dall’Allegato 2, Tabella “B”, punto 5, del R.D. 7 agosto 1936, n. 1720; per l’affermazione della responsabilità del datore che, anche prima degli anni ’90, non abbia adottato misure di prevenzione contro i rischi di esposizione all’amianto, si veda l’ampia motivazione di Cass. pen., sez. IV, 24 maggio 2012, n. 33311, nel celebre caso “Fincantieri”; da ultimo nello stesso senso, si veda Cass. civ. sez. lav., 21 settembre 2016 n. 18503, ove si afferma che “con riferimento alle patologie correlate all'amianto, l'obbligo, risultante dal richiamo effettuato dagli artt. 174 e 175 del d.P.R. n. 1124 del 1965 all'art. 21 del d.P.R. n. 303 del 1956, norma che mira a prevenire le malattie derivabili dall'inalazione di tutte le polveri (visibili od invisibili, fini od ultrafini) di cui si è tenuti a conoscere l'esistenza, comporta che non sia sufficiente, ai fini dell'esonero da responsabilità [del datore di lavoro], l'affermazione dell'ignoranza della nocività dell'amianto a basse dosi secondo le conoscenze del tempo, ma che sia necessaria, da parte datoriale, la dimostrazione delle cautele adottate in positivo, senza che rilevi il riferimento ai valori limite di esposizione agli agenti chimici(c.d. “TLV”, o "threshold limit value"), poiché il richiamato articolo 21 non richiede il superamento di alcuna soglia per l'adozione delle misure di prevenzione prescritte.

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è disponibile a fornire consulenza e assistenza stragiudiziale e giudiziale in materia.

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-Il Danno da Morte e la trasmissibilità iure successionis -

Senz’altro il danno da morte del lavoratore andrà risarcito alla stregua di quanto previsto exart. 2043 c.c..

Ricostruito il nesso eziologico come fatto sopra, non ci si soffermerà qui sulla lesione di diritti soggettivi assoluti, quale il bene vita, in quanto la lesione dello stesso è evidente in re ipsa, in conseguenza del decesso del lavoratore, morto a causa di mesotelioma pleurico.

Infatti, in conseguenza della condotta illecita altrui (nella fattispecie: il comportamento colposo e omissivo del datore di lavoro che esponeva reiteratamente e senza protezioni la vittima ad agenti patogeni), sorgono in capo alla vittima una serie di danni che maturano direttamente nella sua sfera giuridica.

Per il caso di morte della vittima, questa avrà diritto a chiedere il risarcimento di tali danni, diritto che naturalmente si trasmette iure successionis agli eredi secondo lo schema di cui all'art. 565 c.c..

Naturalmente, perché si possa parlare di trasmissibilità agli eredi della pretesa risarcitoria è necessario, secondo la Dottrina e Giurisprudenza maggioritarie, che sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo tra l'evento causativo del danno e la morte della vittima, in quanto si è affermato che "occorre un lasso di tempo sufficiente perché si concretizzi quella perdita di utilità, fonte dell'obbligazione risarcitoria" (Cass. Civ. 28/11/1998 n. 12083).

Si parla dunque di “danno da perdita della vita”, proprio per risaltarne la differenza con quello tanatologico, quasi a voler porre l'accento sul fatto in sé del venir meno, in conseguenza dell'evento dannoso, di quel preciso bene giuridico rappresentato dall'esistenza, a prescindere dunque dalla materiale durata dell'infermità dell'individuo, dalla insorgenza dell'illecito sino alla sua morte. 

Come ha espressamente rammentato la recente sentenza n. 1361/2014 della Corte di Cassazione, costituisce danno non patrimoniale il danno da perdita della vita,quale bene supremo dell'individuo, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito in via primaria da parte dell'ordinamento, anche sul piano della tutela civilistica.

Quale danno non patrimoniale, esso rientra pertanto nella disciplina dell'art. 2059 del Codice Civile. 

Come meglio verrà esposto oltre, il danno non patrimoniale dell’uccisione di un congiunto non coincide con la lesione dell’interesse protetto ma considera una perdita della privazione di un valore non economico, ma personale, costituito dall’irreversibile perdita del godimento di un congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali (danno-conseguenza).

Il ristoro del danno morale subito dal congiunto è quindi da considerarsi totalmente diverso da quello patito dal de cuius,  in conseguenza della morte dello stesso.

Il risarcimento del danno non patrimoniale agli stretti congiunti della vittima comprende non solo il danno biologico suscettibile di accertamento medico legale e il danno morale soggettivo ma anche l’ipotesi di lesione degli interessi essenziali relativi alla sfera degli affetti e alla reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, garantiti dagli articoli 2, 29 e 30 Cost., che risultano irrimediabilmente violati a causa dell’uccisione della vittima, interessi riconducibili quindi alla sfera del danno esistenziale.

Per meglio comprendere quanto esposto, si dovrà esaminare il recente orientamento delle SS.UU. sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015 che statuisce che all’erede della vittima (nel caso che ricorreva: di un incidente stradale) spetta il risarcimento del danno biologico terminale e di quello morale catastrofale ma non del danno tanatologico, se il de cuius è deceduto sul colpo o subito dopo il sinistro, in quanto non c’è stato un lasso di tempo sufficientemente apprezzabile affinché il credito risarcitorio fosse acquisito nel patrimonio del defunto.

Tale principio, espresso dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 15350 del 22 luglio 2015, è stato ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile, nella sentenza 27 settembre 2017, n. 22451.

Nella vicenda in esame da parte della S.C., gli eredi della vittima di un sinistro stradale avevano impugnato in Cassazione la sentenza con cui la Corte d’Appello aveva escluso, il diritto del de cuius al risarcimento del danno biologico anche in difetto di prova dello stato di coscienza della vittima.

Nella pendenza del giudizio de quo, le Sezioni Unite della Cassazione si sono pronunciate sulla questione della risarcibilità agli eredi del danno patito dalla vittima deceduta in conseguenza della condotta illecita, precisando, altresì, il concetto di danno biologico, quello di danno morale-catastrofale e quello di danno tanatologico.

Nello specifico, la Suprema Corte ha stabilito che, alla vittima può essere risarcita la perdita di un bene non patrimoniale, se questa sia ancora in vita, in quanto il presupposto per acquisire il diritto alla reintegrazione della perdita subita, è la capacità giuridica individuabile soltanto in un soggetto esistente (art. 2 c.c., comma 1).

Inoltre, le Sezioni Unite hanno specificato che il danno non patrimoniale risarcibile alla vittima, trasmissibile "jure hereditatis", è innanzitutto il "danno biologico" (c.d. "danno terminale") ovvero la lesione al bene salute quale danno-conseguenza, consistente nei postumi invalidanti che hanno caratterizzato la durata concreta del periodo di vita del danneggiato dal momento della lesione fino al decesso.

Pertanto, l'accertamento del danno-conseguenza presuppone che gli effetti pregiudizievoli si siano effettivamente prodotti, richiedendo a tal fine che, tra l'evento lesivo ed il momento del decesso sia intercorso un "apprezzabile lasso temporale”.

Per quanto riguarda il "danno morale c.d. soggettivo" detto "danno catastrofale", esso consiste nello stato di sofferenza spirituale o intima patito dalla vittima nell'assistere al progressivo svolgimento della propria condizione esistenziale verso il fine-vita; trattandosi di danno-conseguenza, per accertare l'an occorre la prova della "cosciente e lucida percezione" dell'ineluttabilità della propria fine. 

Infine, in relazione al cd. "danno tanatologico", cioè al danno consistente nella "perdita del bene-vita", come anzi indicato, le Sezioni Unite hanno precisato che esso non è rimborsabile se il decesso si verifica immediatamente o dopo brevissimo tempo, dalle lesioni personali;

In tal caso, deve escludersi la risarcibilità iure hereditatis di tale pregiudizio, in ragione dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il credito risarcitorio, ovvero nel caso del decesso dopo un esiguo lasso temporale, della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo.

Tuttavia, come si è già detto, di frequente il malato terminale di mesotelioma pleurico ha il tempo di accorgersi di ciò che gli sta succedendo e per tale ragione scaturisce in capo agli eredi il diritto al risarcimento anche del suddetto danno tanatologico.

Gli eredi, pertanto, in virtù di quanto sopra esposto, hanno diritto al risarcimento del danno iure successionis per quanto attiene il danno biologico consistente nella morte del congiunto, danno la cui quantificazione è rimessa alle Tabelle del Tribunale di Milano e di Roma, per prassi degli Uffici giudiziari.

Detta voce di danno, personalizzato con il danno morale catastrofale e quello tanatologico può condurre anche a risarcimenti nell'ordine di grandezza di diverse centinaia di migliaia di Euro e anche milionari in certi casi e in ragione del numero di eredi. 

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- Approfondimento sul Danno Tanatologico -

Il danno tanatologico, come già detto sopra, è il danno conseguente alla sofferenza patita dal defunto prima di morire a causa delle lesioni fisiche derivanti da un’azione illecita compiuta da terzi.

Esso rientra nella categoria del danno non patrimoniale e rappresenta una fattispecie ulteriore rispetto a quelle già previste di danno morale, esistenziale e biologico.

Il danno tanatologico rientra nella categoria del danno di natura “non patrimoniale” exart. 2059 c.c., il cui fondamento è rinvenibile negli artt. 2 e 32 della Costituzione, ovvero nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e nel Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966.

Il Codice del 1942 disciplinava il risarcimento del danno morale derivante da reato (ex artt. 2059 c.c. e 185 c.p.) quale compensazione pecuniaria del dolore subito.

Il danno morale era, pertanto, risarcibile solo se connesso ad un danno patrimoniale.

Successivamente, con la sentenza n. 88 del 26 luglio 1979, la Corte Costituzionale consentì la diffusione del concetto di danno alla persona, statuendo che la salute è un “diritto fondamentale, primario ed assoluto dell’individuo, il quale, in virtù del suo carattere privatistico, è direttamente tutelato dalla Costituzione (art. 32) e, nel caso di sua violazione, il soggetto può chiedere ed ottenere il giusto risarcimento, in forza del combinato tra il medesimo articolo costituzionale e l’art. 2059 del codice civile”.

Tale sentenza ha dato il passo ad una successiva pronuncia della Consulta, n.184 del 1986, ritenuta di fondamentale importanza per l’affermazione del danno alla persona.

Con la suddetta sentenza, la Corte Costituzionale ha sancito definitivamente la summa divisio tra il danno-evento e il danno-conseguenza, facendo rientrare nella prima categoria il danno biologico, e nella seconda il danno morale subiettivo e quello patrimoniale. Per quanto riguarda il danno tanatologico si sono delineati distinti orientamenti: nella suddetta pronuncia era stata indicata la natura del danno-evento come peculiare del pregiudizio arrecato alla salute. Pertanto, il danno alla salute, subìto dai prossimi congiunti a seguito della morte del soggetto, era azionabile iure proprio.

Attualmente il quadro giurisprudenziale prevalente è orientato a riconoscere l’autonoma risarcibilità del danno catastrofico e del danno biologico terminale trasmissibili iure hereditario, ma a negare la risarcibilità del danno tanatologico in sé, salvo però riconoscere e liquidare agli eredi della vittima il danno tanatologico subito per la perdita del congiunto.

Le problematiche relative alla figura del danno tanatologico dunque riguardano la difficoltà di individuare se lo stesso sia risarcibile o meno.

In particolare, il tema della sua risarcibilità è stato ed è tutt’oggi oggetto di un vivace dibattito giurisprudenziale.

A tal proposito è utile menzionare alcune rilevanti pronunce in materia.

L’orientamento maggioritario non condivide l’esistenza del danno tanatologico, in quanto mancherebbe un titolare del diritto al risarcimento del danno da morte, atteso che il soggetto leso è quello deceduto, ed il diritto al ristoro non sarebbe trasmissibile agli eredi.

Altra parte della Dottrina sostiene, invece, la configurabilità dell’esistenza di soggetti legittimati all’indennizzo, come del resto avviene nel caso di risarcimento da danno biologico riconosciuto agli eredi.

Tra le tesi che negano la risarcibilità, vanno menzionate le sentenze delle Sezioni Unite n. 26972 e n. 26973 dell’11 novembre 2008, con le quali la Corte di Cassazione, dopo aver effettuato una netta separazione tra danno patrimoniale ex art. 2043 e danno non patrimoniale ex art. 2059, ha definito le varie categorie di danno biologico, danno per morte, danno esistenziale, e così via, come “descrittive”, concepite dalla Dottrina come differenti estrinsecazioni del concetto di danno non patrimoniale.

Secondo la Suprema Corte, il danno tanatologico puro non è risarcibile, ma lo sono i riflessi morali dell’evento lesivo sulla sfera giuridica degli eredi.

In tale contesto, si inserisce la sentenza dell'8 aprile 2010, n. 8360 in virtù della quale la Corte di Cassazione, ha riconosciuto trasmissibile agli eredi il diritto al risarcimento del danno tanatologico qualora la morte del soggetto sopraggiunga immediatamente oppure a breve distanza di tempo dall’azione lesiva, in quanto l’evento lede non il diritto alla salute, ma il diritto alla vita.

Spetterà al giudice, in sede di liquidazione, comprendere i danni morali subiti iure proprio dai parenti della vittima, nonché l’importo dovuto per le sofferenze psichiche subìte dalla vittima prima di morire.

Pertanto, il giudice dovrà personalizzare la liquidazione dell'unica somma dovuta in risarcimento dei danni morali, tenendo conto anche del c.d. tanatologico, qualora le parti interessate ne facciano specifica richiesta.

Le tesi contrarie al risarcimento del danno tanatologico sono state argomentate sulla base dell’esame della natura personale del diritto de quo. In particolare, la Corte di legittimità ha ritenuto non risarcibile “il danno da perdita della vita”, in quanto un conto sono le lesioni e le sofferenze morali collocate in un arco temporale apprezzabile, un conto è la morte stessa, che elimina ogni conseguenza pregiudizievole per il defunto, conseguenze necessarie perché si possa parlare di risarcimento.

In senso restrittivo si è pronunciata la Corte di Cassazione civile, sentenza n. 15706/10 del 02/07/2010, secondo cui la lesione dell'integrità fisica con esito letale è configurabile come danno risarcibile agli eredi solo se sia trascorso un lasso di tempo apprezzabile tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte; in questo caso è configurabile un danno non patrimoniale risarcibile e trasferibile agli eredi iure hereditatis.

Esclude il risarcimento anche la Terza Sezione della Corte di Cassazione, con la sentenza del 24/03/2011, n. 6754, qualora il defunto non abbia avuto una lucida cosciente percezione della sua condizione.

Ha condiviso tale pronuncia il Tribunale di Catanzaro, sez. II civile, che, nella recente ordinanza 23.02.2012, ha puntualizzato che la lesione dell'integrità fisica del soggetto, che di lì a breve morirà, non è un danno alla salute perché ciò implicherebbe che lo stesso restasse in vita; al contrario, se muore, allora non sarà più possibile risarcire il danno del bene giuridico della salute per colui che non è più in vita (nda: attenzione: della salute e non già del bene “vita”).

Occorre menzionare, infine, la recente sentenza n. 6273/2012 con la quale la Corte di Cassazione ha escluso la risarcibilità del danno tanatologico qualora la vittima non abbia patito alcun dolore di natura psichica, ad esempio nel caso di un soggetto in coma, rimasto in tale stato fino al decesso.

In tale panorama, assume particolare rilievo la sentenza n. 1361/2014 con cui la Corte di Cassazione, per la prima volta, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da morte della vittima trasmissibile iure hereditatis agli eredi, ai quali spetterà la liquidazione dei danni.

La S.C. ha statuito che, la perdita del bene della vita, fosse risarcibile oggettivamente ex sé, trattandosi di un diritto assoluto ed inviolabile.

Tale orientamento è stato superato in senso contrario, dalla sentenza della Cassazione Civile, SS.UU., del 22/07/2015 n° 15350, nella quale è stato rilevato che, nel caso di morte immediata o che segua entro brevissimo lasso di tempo alle lesioni, non può essere invocato un diritto al risarcimento del danno iure hereditatis

In particolare, la Suprema Corte ha fondato tale pronuncia sull’argomentazione che il danno da morte non lede il bene giuridico “salute”, ma il bene “vita”, che “è fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”.

Pertanto, poiché nel momento in cui si verifica l’evento morte, il legittimo titolare viene a mancare, non potrebbe sussistere il diritto al risarcimento del danno tanatologico. 

Da tale pronuncia si discosta nettamente l’ancor più recente sentenza della Cassazione, III sez. civile, 28 aprile - 20 agosto 2015, n. 16993, che si allinea con l’orientamento precedente, a lungo maggioritario. 

Con tale pronuncia vengono indicati i presupposti per la configurabilità del danno da perdita di chancee del danno tanatologico.

In particolare, nel caso oggetto della summenzionata pronuncia, l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ed il ritardo nell’esecuzione di un intervento c.d. palliativo, avevano causato al paziente un danno in quanto è stato costretto a sopportare il dolore  (Cass., 13/4/2007, n. 8826), che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli (cfr. Cass., 18/9/2008, n. 23846; Cass.,23/5/2014,n.11522).
Nel caso de quo, la Suprema Corte ha individuato l’esistenza di un danno risarcibile alla persona, sia per l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto il soggetto era stato privato della chance di vivere per un periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, sia per la possibilità di conservare, durante quel decorso, una "migliore qualità della vita" (v. Cass., 18/9/2008, n. 23846, e, conformemente, Cass., 8/7/2009, n. 16014, Cass., 27/3/2014, n. 7195).

Dunque, la Cassazione, aderendo all’orientamento espresso nella sentenza n. 23846/2008 ha evidenziato che: “il concetto di patrimonialità va correlato al bene in relazione al quale la chance si assume perduta e, quindi, in riferimento al danno alla persona ad una chance di conservazione dell'integrità psico-fisica o di una migliore integrità psico-fisica o delle condizioni e della durata dell'esistenza in vita”.

Alla luce delle summenzionate pronunce, si deduce l’esistenza di orientamenti tutt’ora discordanti, offerti dalla Corte di Cassazione, ma solo in merito alla configurabilità del danno tanatologico (ossia della personalizzazione del danno).

Tuttavia quanto statuito dalla S.C. a SS.UU. nel 2015 supera definitivamente l’orientamento precedente, consentendo quindi la liquidazione anche di detta voce di danno, ricorrendone i presupposti (e cioè il decorso di un apprezzabile lasso di tempo intercorrente tra il venire a conoscenza della patologia e il verificarsi dell’evento morte).

In riferimento alla quantificazione del danno tanatologico, occorre evidenziare che la stessa viene rimessa agli apprezzamenti e valutazioni equitative del giudice.

Questi dovrà tener conto delle effettive sofferenze patite dalla vittima del danno, compresa la dimensione temporale, ovvero la gravità dell’illecito da cui deriva la morte e tutte le circostanze peculiari al caso concreto.

Trattandosi di una valutazione equitativa, il Giudice non sarà tenuto a dare una minuziosa elencazione di tutti gli elementi su cui si è basata la sua decisione.

Pertanto, ai fini della quantificazione del danno tanatologico è possibile far riferimento alle tabelle formulate dai Tribunali italiani, da integrare con un’opportuna personalizzazione dell’ammontare del danno riferita al caso concreto.

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è disponibile a fornire consulenza e assistenza stragiudiziale e giudiziale in materia.

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-Sul risarcimento del danno ai congiunti iure proprio -  

Appurato come indicato nei capitoli precedenti la ricorrenza del nesso eziologico ed il diritto degli attori al risarcimento iure successionis del danno biologico personalizzato con il danno morale catastrofale e quello tanatologico, ci si dovrà concentrerà qui sul risarcimento del danno risultante nella sfera degli attori iure proprio.

Invero, i congiunti della vittima patiscono un danno jure proprio, da lesione del vincolo affettivo consistente nel dolore subito dalla perdita del parente.

Si dovrà ricordare sul punto, fra le altre, la recente pronuncia della Corte di Cassazione, che con sentenza n. 14655/2017, coglie l’occasione per ribadire il principio secondo cui “in caso di perdita definitiva del rapporto matrimoniale e parentale, ciascuno dei familiari superstiti ha diritto ad una liquidazione comprensiva di tutto il danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata e intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare in grado di prestare assistenza morale e materiale, avuto riguardo all’età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto, da allegare e provare (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza) da parte di chi agisce in giudizio, spettando alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettono l’unità, la continuità e l’intensità del rapporto familiare”.

La morte di una persona comporta normalmente, a carico di alcuni soggetti, danni di natura patrimoniale, nella duplice forma del danno emergente e lucro cessante.

Il problema se il diritto al risarcimento spetti ai superstiti iure proprioo iure hereditatis è da tempo superato.

Dottrina e Giurisprudenza sono concordi nel ritenere che i legittimati al risarcimento agiscano iure proprio: ne discende perciò l’irrilevanza in capo ad essi della qualità di eredi. 

Si verifica, quindi, in questa ipotesi un cumulo di pretese (iure proprio e iure successionis). 

Che la riparazione del danno da morte spetti ai congiunti iure proprio è circostanza da cui derivano conseguenze rilevanti.

Il risarcimento dei danni patrimoniali da uccisione viene generalmente inquadrato nella prospettiva della lesione aquiliana del credito;

secondo un’altra opinione invece la giustificazione della legittimazione ad agire per il risarcimento dei danni riflessi trova il proprio fondamento nell’esigenza di tutelare il gruppo familiare, esigenza basata sul principio costituzionale di solidarietà: sarebbe quindi la lesione del legame familiare a determinare l’ingiustizia del danno, indipendentemente dall’esistenza di un diritto di un congiunto agli alimenti o all’assistenza economica.

Costituisce principio consolidato quello secondo cui i danni patrimoniali futuri risarcibili ai congiunti sono rappresentati dalla perdita di quei contributi e di quelle attività economiche che, sia in relazione a precetti normativi, sia per la pratica di vita improntata a regole etico -sociali di solidarietà e costume, presumibilmente secondo il criterio di normalità, il soggetto venuto meno prematuramente avrebbe portato alla stregua di una valutazione che faccia ricorso anche alle presunzioni e dati ricavati dal notorio e dalla comune esperienza.

La Giurisprudenza risalente, sforzandosi di rinvenire un diritto la cui lesione desse luogo a un risarcimento, ha creduto di poterlo identificare nel credito alimentare di cui agli artt. 433 e ss. c.c. e ha perciò limitato ai relativi beneficiari la legittimazione risarcimento.

Ben presto i giudici, nell’intento di assicurare migliore tutela ai componenti la famiglia, si sono orientati nel senso di attribuire il risarcimento del danno patrimoniale ai congiunti che provino di aver beneficiato di sovvenzioni durevoli e costanti da parte del defunto, ancorché ai benefici economici la vittima non fosse tenuta in forza di un obbligo alimentare o di mantenimento.

La Giurisprudenza ha dunque ampliato la cerchia degli aventi diritto, attribuendo il risarcimento a quei congiunti che pur non beneficiando di alcuna sovvenzione da parte della vittima vengano privati in conseguenza dell’illecito mortale di futuri benefici economici che il defunto avrebbe corrisposto loro se fosse rimasto in vita e ciò pur in assenza di un obbligo giuridico (così, Cass. N. 6672/87, n. 2076/79, n. 1787/78, n.1085/98 e  n.10097/97).

L’unica richiesta è che tali aspettative siano logiche e attendibili in quanto sia possibile presumere in base al criterio di normalità fondato su tutte le circostanze del caso concreto che la persona defunta avrebbe effettivamente apportato un contributo economico (Così, Cass. 4980/06, 11189/05, 12597/01, 1637/00).

Facendo applicazione di questi principi, si è riconosciuta astrattamente la legittimazione ad agire ai figli maggiorenni, economicamente indipendenti, in virtù delle provviste aggiuntive che il genitore deceduto per fatto illecito di un terzo avrebbe potuto destinare loro. (così, Cass. 24802/08).

Quanto ai danni patrimoniali futuri sofferti del coniuge di persona deceduta, essi assumono la veste del lucro cessante e il relativo risarcimento è collegato a un sistema presuntivo a più incognite costituito dal futuro rapporto economico tre coniugi e dal reddito presumibile del defunto.

La prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta, sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dall’esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche, anche senza che ne avesse bisogno. 

A queste considerazioni si è aggiunto che il godimento di un reddito proprio esclude il diritto al risarcimento del danno solo se tale reddito è sufficiente a soddisfare interamente le esigenze presenti e future del percettore, in relazione al tenore di vita, all’educazione, all’istruzione, alla posizione sociale e all’età (così, Cass. 4205/2002).

Non rileva inoltre che il coniuge diventi titolare di una pensione di reversibilità fondandosi tale attribuzione su un titolo diverso dall’atto illecito (Cass. 18490/2006).

Inoltre, i parenti della vittima avranno altresì diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale consistente nella privazione di un valore non economico ma personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento del congiunto e/o dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali.

Si ritiene che il danno da perdita del rapporto parentale vada al di là del crudo dolore che la morte in sé di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei confronti dei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi piuttosto esso nel vuoto costituito dal non potere più godere della presenza e del rapporto con chi è venuto meno e perciò nell'irrimediabile distruzione di un sistema di vita basato sull'affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra genitore e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell'alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti.
Tale pregiudizio si colloca nell'area dell'art. 2059 c.c. nel cui alveo rientrano i danni di natura non patrimoniale.

La quantificazione di tale danno viene effettuata con criterio equitativo tenuto conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione della convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza idonea a comprovare l'intensità del legame con il de cuius.

L'intensità del vincolo familiare, ai fini della valutazione del danno morale conseguente alla morte di un prossimo congiunto, può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la prova dell'esistenza del menzionato danno morale, in assenza di elementi contrari, mentre l'accertata mancanza di convivenza dei soggetti danneggiati con il congiunto deceduto può rappresentare soltanto un idoneo elemento indiziario da cui desumere un più ridotto danno morale.

L'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano nel corso dell'anno 2014 ha diramato una tabella che dovrebbe costituire l'indice di determinazione del danno da perdita del rapporto parentale. Entro tali limiti i Tribunali a livello nazionale determinano ciascuna posta risarcitoria.

Pertanto, con riferimento al danno di cui al presente paragrafo, per addivenire alla sua quantificazione si dovrà fare ricorso alle Tabelle del Tribunale di Milano che attribuiscono a favore di ciascun figlio per la morte di un genitore un risarcimento compreso tra dei minimi e dei massimi e a favore del coniuge (non separato) o del convivente sopravvissuto un risarcimento di un importo compreso anch'esso ricompreso tra dei valori minimi e massimi.

La liquidazione di tale danno deve tenere in considerazione la sopravvivenza o meno di altri congiunti, la convivenza o meno di questi ultimi, nella qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, nella qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta e dovrà essere effettuata in via equitativa.

Il danno andrà dunque personalizzato in ragione del caso che ricorre all'esame del nostro Studio Legale.

Lo Studio Legale De Paola Longhitano di Torino è disponibile a fornire consulenza e assistenza stragiudiziale e giudiziale in materia.

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Anche solo per consentire al lettore di comprendere l'importanza degli importi di cui ai risarcimenti oggetto della presente trattazione viene fornita al seguente link la Tabella aggiornata 2018 inerente alla quantificazione dei danni patrimoniali e non patrimoniali spettanti alle vittime e ai parenti di tale patologia, comprensive di:

1) CRITERI ORIENTATIVI PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO NON PATRIMONIALE DERIVANTE DALLA LESIONE DEL BENE SALUTE DEFINITO DA PREMORIENZA;

2) CRITERI ORIENTATIVI PER LA LIQUIDAZIONE DEL DANNO C.D. TERMINALE.

CONSULTA QUI LE TABELLE DEL TRIBUNALE DI MILANO AGGIORNATE ALL'ANNO 2018 - OSSERVATORIO SULLA GIUSTIZIA CIVILE DI MILANO

N.B. : LE TABELLE ANDREBBERO SEMPRE LETTE CON L'AIUTO DI UN PROFESSIONISTA ONDE NON CREARE FALSE ASPETTATIVE. SE AVETE DUBBI, CONTATTATECI AL N. 011.3173816. 

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